Se il 2018 si era chiuso con il blocco dell’aeroporto di Gatwick dovuto alla presunta presenza di droni non autorizzati, la fine del 2019 ci dice invece che quest’anno verrà probabilmente ricordato come quello del definitivo exploit delle tecnologie anti-drone.
La seconda edizione dello studio sui sistemi anti droni rilasciata pochi giorni fa dal Center for the Study of the Drone at Bard College fotografa infatti un settore in forte espansione, con ben 537 dispositivi attualmente in vendita tra fucili, laser, radar, jammer, etc, a conferma del fatto che la costante diffusione dei droni trascina con sé anche la domanda di strumenti in grado di limitarne il raggio d’azione in aree pubbliche o private dove il volo non è consentito, rimandando i velivoli indietro dal loro pilota oppure portandoli a terra, in casi estremi arrivando persino ad abbatterli.
I numeri del boom
350 degli strumenti presi in considerazione dallo studio, che potete trovare a questo indirizzo, permettono di intercettare i droni e eliminarli, mentre le altre si limitano sostanzialmente a individuarli. La maggior parte dei sistemi anti droni s basano su tecnologia jammer, ma ci sono anche alcune soluzioni creative che includono l’uso di laser, reti e persino droni kamikaze.
Ma ci sono ancora dei limiti
A proposito di questo boom, non si può non notare che l’industria dei sistemi anti droni abbia subito una forte accelerazione proprio a seguito dei numerosi eventi che, nel corso degli ultimi anni, hanno coinvolto alcuni tra i principali aeroporti del mondo, bloccandone – a volte per ore, altre addirittura per giorni – il traffico, con enormi disagi per milioni di passeggeri.
Sulla questione sicurezza, solo nel corso di questo ultimo anno, sono state numerose le dichiarazioni di allerta da parte dei rappresentanti di molti Governi, così come sono stati abbondanti i finanziamenti piovuti sul settore e le spese pubbliche per dotare in fretta e furia di queste tecnologie le strutture nazionali più a rischio (oltre che un certo e diffuso irrigidimento normativo per chi vola).
Ma si sa che la fretta è cattiva consigliera. E così, nonostante la loro sorprendente abbondanza sul mercato, queste contromisure appaiono oggi ancora ben lontane dal fornire quelle garanzie per le quali sono state pagate a peso d’oro.
Come sottolinea Arthur Holland Michel, autore dello studio, il tempo a disposizione per abbattere un drone è molto meno di quello che sembra. Ad esempio, anche se il sistema anti drone copre 1 km di raggio, che può sembrare una buona distanza, all’atto pratico un drone che vola a 40 km/h in un’area controllata può arrivare sopra un obiettivo sensibile in meno di 2 minuti, durante i quali lo staff di sicurezza deve effettuare un secondo controllo, decidere di colpire il bersaglio e attivare l’arma di risposta adeguata, una serie di decisioni che richiede probabilmente più tempo e che risulterebbe magari efficace nel caso in cui il divieto venisse violato da un pilota irresponsabile, di certo non in caso di attacco terroristico.
E infatti, se la tecnologia anti droni si evolve a ritmo serrato, di certo quella dei droni non sta a guardare, e crea velivoli sempre più veloci, sofisticati, in grado di orientarsi anche senza GPS, pilotabili a distanze maggiori e persino in formazioni a sciame, gestite da un solo pilota remoto. Insomma, i sistemi anti droni sembrano condannati per via della loro stessa natura a stare sempre un passo indietro rispetto allo sviluppo dei droni, un po’ come a dire: “Fatta la legge, trovato l’inganno“.
Cui prodest?
E allora sorge è lecito chiedersi: se i tanti soldi spesi per queste tecnologie non portano effettivamente il risultato auspicato, a chi conviene? Al momento, soprattutto alle aziende che sviluppano questi sistemi.